Il senso del vuoto quando accade: un racconto di Antonello De Luca

 Il senso del vuoto quando accade: un racconto di Antonello De Luca

Mio padre aveva ’sta cosa che non sentiva dolore, o forse, non aveva paura. Gli ospedali per lui non erano motivo d’ansia, men che meno le analisi, i prelievi, la chirurgia generale. La verità è che mio padre combatteva con la morte da sempre, dico sul serio. Teneva la cirrosi e aveva vinto tre tumori al fegato e un ictus. L’epatite C lo aveva segnato da quando aveva venticinque anni e da mezzo secolo era costretto a esami e cure sperimentali. Mio padre fu uno dei primi a essere curato con l’interferone. Gli altri erano morti. Lui no. I medici non se lo spiegavano. C’erano articoli e pubblicazioni scientifiche su mio padre, roba da non credere, c’era chi aveva costruito la propria carriera su di lui. Il primario del reparto dove lo accompagnavo lo fermava per i corridoi stringendogli la mano. Poi ogni volta lo faceva rivoltare come voleva: prelievi, tamponi, esami dai nomi strani. Ogni tre mesi. Ogni quattro. Ogni sei. Mio padre alzava le spalle. «Così è,» diceva «niente ci fa.»

Fu lui ad accompagnarmi alla mia prima gastroscopia. In macchina rideva.

«Se ti dicono del valium rispondi che non ti serve, che non ne hai di bisogno.»

«Okay» risposi.

«Quella roba ti rincoglionisce tutto il giorno.»

«Okay.»

«E oggi arriva pure quello della legna. E dobbiamo scaricare il camion.»

«Okay.»

Dicevo sempre okay a mio padre. Non era per buona educazione o per una forma di timore reverenziale: mio padre era un tipo che stavi a sentire. Certo, le cose tra noi non erano sempre una bellezza. Scazzavamo, come tutti. Ma mio padre aveva questa cosa che non cercava mai una mano, mai un aiuto, né fisico né morale, mai che sprecava mezza parola, e allora se ti chiedeva qualcosa te la chiedeva davvero, era tipo che eri degno del suo grazie, e non era roba da poco.

Così eravamo in auto, io e mio padre, e lui rideva, e io non sapevo se farmela sotto, perché ’sta faccenda della gastroscopia non è proprio come mangiare una polpetta: ti infilano un tubo in gola ed è una cosa rigida che scende attraverso una cosa molliccia e io nutrivo il dubbio che tutta quella roba molliccia non fosse stata progettata per accogliere quella rigida, ma liquida o al massimo masticata, e insomma se quelli avessero infilato un tubo di quaranta centimetri lì dentro, il cervello sarebbe andato in sbattimento e avrebbe detto una cosa del tipo: «Ehi che cos’è ’sta roba rigida?» e insomma ci sarebbe stato tutto un passaggio di informazioni e alla fine il cervello avrebbe comandato ai muscoli del petto di contrarsi o forse si sarebbero contratti anche senza passaggio di informazioni, diciamo involontariamente, e quindi il tubo in questione, che tra parentesi si chiama gastroscopio, si sarebbe ritrovato il passaggio chiuso, non sarebbe né salito né sceso, e io sarei morto gorgheggiando e sputacchiando bestemmie; e forse è per questo che ti sballano, per farti stare calmo come una vacca indù.

Pensavo a tutto questo mentre stavo in auto con mio padre. Pensavo che okay, ci sarebbe stata la possibilità di rimanerci secco, ma okay, mio padre mi diceva di stare tranquillo, che era roba da poco e che il valium mi avrebbe rincoglionito e che poi sarebbe venuto quello della legna, eccetera.

Così dissi okay, come sempre, a mio padre. E nello stesso tempo avvertii una specie di vuoto, proprio lì, alla bocca dello stomaco. Come quando uno ha fame. E invece no, non avevo fame né niente.

Nella sala d’aspetto chiamarono il mio nome e io alzai la mano. Seguii l’infermiere e prima di uscire lanciai uno sguardo a mio padre, uno sguardo del tipo: è tutto okay, vero?, non lo prendo il valium, giusto?. Ma lui leggeva il giornale.

Così andò tutto storto. I due compari che armeggiavano con i macchinari mi dissero del valium e io feci il fenomeno. Quelli si guardarono e alzarono le spalle, infilarono il tubo come veniva prima, e ovviamente trovarono tutto chiuso e allora, mentre continuavano a tirare e a spingere e a strattonare, compresi come fosse tutto contro natura: cercavo di respirare con il naso e di rilassare tutto il rilassabile – nella condizione meno rilassante che si possa immaginare, con un coefficiente di difficoltà altissimo, come cercare di spegnere un incendio a sputi – e alla fine, non so come, quei due riuscirono a fare quello che dovevano e tolsero il tubo e mi dissero che potevo andare.

Mi cacciai fuori dalla stanza, ovviamente, ma barcollando come se stessi uscendo dal baretto sotto casa il venerdì sera, e mio padre era lì con il giornale in mano, senza leggerlo. E rideva. Ma non come ridono le persone normali: mio padre rideva in un modo che ti faceva saltare i nervi, come controvoglia, stirando le labbra sottili che se non lo conoscevi pensavi fosse cattivo.

Ma mio padre non era cattivo.

Così in auto gli chiesi perché mi avesse detto quella cosa del valium e lui alzò le spalle e ancora quella specie di ghigno. Ma io proprio non ci avevo voglia di scherzare e forse neanche lui; cioè lui non voleva dirmi del valium per tirarmi un brutto scherzo; come detto, mio padre ne aveva passate tante e a lui quella cosa che mi avevano appena fatto gliela ripetevano ogni tre mesi che ormai non sentiva più una cippa. Ma in quel momento ero stanco e mi avevano appena infilato un tubo in gola a crudo e, anche se non lo sapevo, avevo appena fatto una seduta di training autogeno per rilassare parti del corpo mai utilizzate, e così gli risposi.

Non che fosse la prima volta, come detto, ma in quella occasione gliele cantai, eccome.

Lui stava guidando. Poi disse la frase che ripeteva sempre, quella frase che non capivo e che odiavo: «Oggi sei incudine, domani sarai martello» disse mio padre.

E fu allora che scazzai. Dico sul serio.

Gli dissi che lui era una vita che era incudine, una vita e ancora una vita che se lo rivoltavano come un calzino e che lo avevano studiato e usato come una cavia e lui zitto, sempre zitto, a subire, per una vita. Gli dissi che quella cosa che non sentiva più dolore non era vera perché ormai il dolore gli piaceva e che un’altra vita non sarebbe bastata a fare di lui un martello, perché era nato incudine e sarebbe morto incudine.

Dissi tutto questo a mio padre, dissi che non volevo essere come lui, ecco, dissi anche questo, mannaggia alla mia linguaccia, dissi che volevo essere martello, perché quella storia dell’incudine mi aveva scassato ad alti livelli.

E insomma, dissi quello che mi passava per la testa e poi rimasi senza pensieri.

Il punto è che non ricordai ciò che dissi a mio padre per tanto tempo, una cosa assurda, come se le parole fossero state risucchiate nel vuoto.

Facemmo la strada verso casa in silenzio. Arrivò il tizio della legna. Scaricammo il camion insieme. Mi diedi proprio da fare. Quasi non permisi a mio padre di prendere un ciocco. Per uno dei suoi, io ne portavo cinque. Sistemai la legna vicino il muro esterno, un ciocco via l’altro, li accatastai ben bene, facendo delle pile quadrate, i ciocchi più grandi alla base, quelli più piccoli di lato, i ramoscelli di sopra, come mi aveva insegnato.

Ricoprimmo ogni cosa con un telo.

Quando finimmo, fumammo una sigaretta insieme. In silenzio. Guardando il lavoro fatto. Mio padre respirava. Si sentiva il suo respiro.

Alla fine gettò la cicca e: «Grazie» disse.

La cicca zampillò sul terriccio e quando cadde sentii una specie di boato dentro la pancia.

Guardai la schiena di mio padre mentre si allontanava. Aprì la porta di casa ed entrò e la lasciò senza richiuderla.

Allora ebbi questa cosa di parlare. Dissi ancora qualcosa come se fino a quel momento avessi fatto tutto in apnea.

«Scusa» dissi.

Lo sentii chiaramente. Ma solo io. Poi di nuovo quella specie di vuoto.

Così rimasi a guardare il lavoro che avevamo fatto. Tutta quella legna impilata e i ciocchi messi uno sull’altro e tutti quei ramoscelli. Dimenticai ogni cosa, come detto, ma non quegli spazi vuoti tra un legno e un altro. E poi io e mio padre e nessuna eco.

 

Antonello De Luca

Blam

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1 Comment

  • Un racconto emozionante. L’ho molto apprezzato.

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