Il racconto della domenica: La staffetta di Anna Maria Pipolo

 Il racconto della domenica: La staffetta di Anna Maria Pipolo

Illustrazione di Miriam Cecere

Il pezzo finale della proprietà di famiglia costeggia un fiume e a un punto del sentiero, all’ombra di un ontano, ancora resiste, vuota, una vecchia panchina verde. L’altro giorno ci sono andato, come sempre, sul tronco dell’ontano c’era un cartello con su scritto “divieto di pesca”, che si è aggiunto ad altri dello stesso tipo comparsi già da un po’ sugli altri alberi: “vietato tagliare”, o “vietato raccogliere lumache”, con tanto di articoli di legge inventati.

È lui, lo so, che li inchioda; è lui che ha fatto di questo pezzo un suo lotto personale, e i cartelli servono a chiarire il concetto, ove non fosse chiaro. Del resto vive qui da parecchio, nel capanno diroccato dei coloni. Beve e cucina con l’acqua piovana mangiando erbe, soprattutto, erbe che sceglie lui stesso. Si lava e si asciuga ai bordi del fiume. E deve essersi anche bucato un piede tra il ciarpame arrugginito portato dalla corrente, perché gli ho visto un piede fasciato.

A volte gli lascio sulla panchina una bistecca o un pezzo di formaggio, perché queste cose le prende. Cose non cucinate, mai pronte, altrimenti le lascia lì, in ossequio alle sue strambe regole culinarie. Ma la regola segreta e principale è che noi non ci dobbiamo incontrare mai. Se per caso mi vede gira le spalle, striscia le ciabatte aperte d’estate e d’inverno sull’erba o nel fango, e si allontana allargando le dita della mano destra come a seguire un discorso, mentre io ne seguo il profilo di schiena, la lunga coda di capelli grigi e unti, maltenuti da un elastico. Non so come reagirebbe a contraddirla, basta un niente per scatenarne l’ira.

Figuriamoci l’altro giorno! A detta di Pino il negoziante della piazza è entrato, rosso di collera e tracimante di bestemmie, dicendo che gliel’avevano “fottuta”, la bicicletta, “quei disgraziati dei ragazzi”, e ora però ne aveva presa un’altra, insieme a una catena pesante per legarla. Meno male, ho pensato, e mi sono anche spiegato perché non lo vedevo da un po’ percorrere la collina.

 

«Papà, papà, ma chi è quello sulla bici?» mi ha chiesto ieri il mio piccolo Andrea, avvicinando la testolina bionda allo schienale di guida, tra me e sua madre che elencava le cose da comprare. Si riferiva a lui che pedalava in parallelo, con lo sguardo fisso in avanti senza voltarsi nemmeno di un millimetro, ignorandoci contegnosamente, la coda oscillante sulla casacca beige.

«Allora, hai deciso che regalo vuoi per il compleanno?» gli ho risposto per non rispondere e per sentirlo enumerare: la macchina telecomandata, Iron Man, il dinosauro rosso…

Elisa sul sedile a lato mi guardava comprensiva e dolce, anche se ne ha consumata un po’, di pazienza, sull’argomento “mio fratello”. Non ne può più di frullatori usati, o di asciugacapelli aggiustati come nuovi, che lui mi fa trovare in una specie di staffetta sulla panchina verde e io porto a casa nello stanzone nero sul retro, che una volta serviva ad affumicare salami. È tutta roba che viene dai cassonetti, dove lui prende quel che gli pare utile, ci perde tempo e pazienza per metterla in funzione, e poi me la lascia lì sulla panchina come un regalo.

«Il museo dell’accattonaggio» dice lei. «Perché non fai un po’ di pulizia?»

È a lei che devo tutto, è lei l’unica che non mi ha allontanato quando le altre ragazze mi evitavano, allora, quando si seppe nel paese che mio fratello era impazzito. Ma di loro e delle loro famiglie non mi importava. Mi importava solo di lui ogni ora, ogni momento, quando sbraitava contro mia madre a ogni sciocchezza, quando i piatti pieni sobbalzavano sul tavolo. Gli vidi la scheggia rossa della follia nel lucido degli occhi, mentre si agitava e sputava sui muri di casa. Vidi la terra sotto i piedi spaccarsi in due e le due faglie allontanarsi come in un film; lui sull’altro lato era un guerriero sferragliante di parole dure – camicia di forza, elettrochoc – scagliate contro di noi, e quell’abisso mi faceva paura. I miei mi misero in mano una torcia, l’arma della tenerezza del fratello minore, a cercare di blandirlo, e su quel fascio di luce sempre più debole cercai di camminare nel vuoto e trattenerlo e agganciarlo, ma non bastava. Poi diventò muto, chiuse tutte le accuse in un sacco, ebbe cura di metterci anche un libretto di risparmio, per fortuna, e andò via. Non parlò mai più con nessuno di noi, da allora. Mia madre si consumò a ragionare sui perché, a cercare l’epicentro dei suoi scrupoli, l’inganno con cui lo aveva lasciato nella casa di cura. Così ne era uscito, tempo dopo: rabbia e odio e distanza, questo era il Vangelo. Mio padre continuò a girare tra i campi alla guida del trattore, con uno sguardo forte sotto l’ombra del cappello di paglia.

Vent’anni da allora sono passati, i miei sono morti, e io ho ancora in mano quella debole luce di torcia. Oggi non ho niente da lasciare sulla panchina di mio fratello, ma vado sempre a controllare se continua a inchiodare cartelli, o a fare le sue opere d’arte lì accanto al fiume con gli scheletri degli ombrelli o dei telai di finestre rotte. Mi avvicino e vedo lì, al centro della seduta un pacchetto giallo, nuovo di zecca, non riciclato, con un nastro elegante e un cartoncino “Per Andrea”. Non c’è in giro, ma di sicuro mi starà guardando. Alzo la mano a mezz’aria e torno a casa.

«Guarda,» dico ad Andrea mentre Elisa mi guarda dubbiosa «l’ho trovato su una panchina, ma c’è scritto per Andrea, è per te!» aiutandolo a rompere la carta e scoprire il regalo. «Bello!» dice tutto contento. È un orologino con la faccia di Gatto Silvestro, due zampe per lancette e il cinturino rosso.

«Ma chi è, chi me lo ha dato?»

«È uno che c’è e non c’è, però sa tutto, anche il giorno del tuo compleanno!»

Anna Maria Pipolo

Blam

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