Il racconto del mercoledì: Pelé di Davide Ceraso

 Il racconto del mercoledì: Pelé di Davide Ceraso

Illustrazione di Francesca Galli

Osservavo la mamma, le mani che tremavano e la sigaretta che non voleva accendersi. Piangeva ogni anno. In silenzio. Esauriva le parole la sera prima della partenza mentre preparava i bagagli, maledicendo nostro padre per averla abbandonata con due figli maschi da crescere. Io la supplicavo di non farmi andar via, ma ogni sillaba restava imprigionata nell’esiguo spazio tra labbra e finestrino, come se il vagone fosse una sorta di acquario. Lei allora accennava un sorriso e salutava dalla banchina deserta. Poi il treno prendeva velocità e in cinque ore dovevo metabolizzare che l’avrei rivista soltanto alla fine dell’estate.

Scendevamo a Pisa. Zio Eraldo aspettava sotto il sole nell’abitacolo rovente di una Jeep che puzzava di sudore e China Martini. E infine arrivavamo a Campo di Chiaramonte che, a dispetto del nome, di campi non ne aveva, solo case di pietra a vista e viuzze irte come aculei di un istrice arrabbiato.

Questo, a dire il vero, se non si teneva conto del camposanto.
Il cimitero, sistemato sulla sommità del paese dietro la chiesa dell’Assunta, nascondeva un praticello su cui l’erba cresceva fitta come quella dell’Artemio Franchi. Noi giocavamo a calcio vicino alle mura, accanto ai morti dimenticati. Le lapidi del Commendator Ugo Cioni (1836-1899) e di Lapo Gorini (1844-1895) erano i pali della porta sinistra, quelle dell’avvocato Duccio Re (1855-1912) e di Leone Pucci (1856-1923) formavano l’altra porta. Io volevo stare in squadra con mio fratello Ascanio detto Pelé perché non perdeva mai. Era invincibile. L’ha sconfitto solo vent’anni più tardi un tumore ai polmoni. Non ha avuto una singola possibilità di vincere, quella volta, non c’è mai arrivato nemmeno vicino. Nella vita, si sa, la vittoria è per chi ha coraggio e fortuna, non talento.

Ascanio era nato quattro anni prima di me e al suo funerale fissavo la bara non riuscendo ad accettare che fosse lì dentro, chiuso. Lui, che non stava fermo neanche quando sognava. Abbiamo sempre dormito nella stessa cameretta e il letto a castello sussultava a ogni suo movimento. Lui sopra. Io sotto. A volte mi alzavo per rannicchiarmi al suo fianco.

Siamo rimasti insieme anche gli ultimi giorni di vita, in una camera d’ospedale. La malattia lo aveva come rimpicciolito, svuotato. Alla fine non riusciva quasi più a respirare, ingoiava aria alla ricerca di ossigeno, le lastre del suo torace sembravano il cielo della Toscana: nero come una lavagna e puntinato di stelle.

Ora fisso lo schermo di un computer, la mente torna a quelle estati, a come Ascanio stringesse il mio corpo ossuto per rincuorarmi quando volevo tornare a casa dalla mamma e sogno di poter essere ancora lì. All’epoca, correvamo avanti e indietro dalla mattina alla sera, gli unici pericoli erano le spine del roseto accanto alla cappellina e Gianni, il custode del cimitero, che a volte ci minacciava con il badile. E pensavo che i ricordi tenessero svegli la notte, non che potessero anche graffiare la pelle…

Davide Ceraso

Blam

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