Un futuro in cui si possono cancellare i ricordi scomodi: «Ciò che non muore si archivia» è il racconto di Eleonora Quintavalle
Nel 2057 lavoravo come smaltitore neurale per clienti privati con piccole colpe e grandi patrimoni. Mi chiamavano quando c’erano ricordi da cancellare: notti sporche di log compromettenti, decisioni aziendali discutibili, tradimenti su drone-zoom. Non facevo domande. Solo backup e un amen in codice binario. Il tutto in un monolocale al quindicesimo piano di un fabbricato con infiltrazioni nella Zona Umida di Litorale Secco, ex Genova, oggi città-stato autogestita dal Comitato di Riciclo Etico e due fratelli tossici con un satellite. Il mio appartamento era un ex laboratorio dentistico convertito in studio illegale. L’aria sapeva di ozono e colla gengivale.
La chiamata arrivò alle 3:12 di mattina, cioè l’orario perfetto per chi ha appena fatto qualcosa di talmente imperdonabile da volerlo dimenticare con urgenza.
«Lei è l’Archivista?»
«No, io sono la Madonna delle Lenti Sporche.»
Silenzio. Nessuna risata.
«Sì, sono l’Archivista.» E tu sei privo di umorismo, pensai.
Dall’altra parte, udii un sospiro prolungato. «Ho bisogno di dimenticare un brano musicale.»
Questa è nuova.
Mi presentai all’indirizzo trasmesso via segnale criptato: un fabbricato di fascia D crollato a metà, abitato da ex broker e teppisti spirituali con denti in fibra. Salii al decimo piano con un ascensore impazzito che suonava l’Ave Maria in reverse. La porta era una tenda di plastica da doccia, con il logo della RedCorp stampato sopra.
Dentro trovai un uomo nudo dalla vita in giù, circondato da vecchi device musicali: un walkman sovrascritto, due lettori cranici a nastro magnetico, una console fononeurale francese che non si vedeva dal ’43, il tutto collegato con cavi a vista che gli uscivano dalla spina dorsale. Stava piangendo.
«Mi è entrato dentro» disse. «Il beat.»
Lo collegai alla mia interfaccia per analizzare il flusso neurale. Era un ricordo attivo, incandescente, più simile a un’infezione che a una memoria. E la traccia, che girava in loop – perforando l’ippocampo con una violenza da rave mistycore – aveva una firma: «Hannibalistas // Interruzione 6.7.1».
Lo riconobbi. Tutti lo conoscevano.
Era la traccia-video-manifesto che le Hannibalistas avevano caricato abusivamente durante il Discorso sul Profitto della RedCorp. Una sinfonia costruita con suoni di trivelle petrolifere, voci di donne sopravvissute ai campi minerari e il respiro spezzato di una conduttrice tv che cercava di coprire il tutto leggendo il teleprompter.
Il video era stato rimosso ovunque, ma il danno restava negli ascoltatori. Chi lo sentiva, si infettava: alcuni diventavano attivisti, altri impazzivano, altri ancora volevano solo dimenticare.
«Io… compravo roba della RedCorp. Usavo i loro tamponi intelligenti. Il loro pane.» Cominciò a piangere, non sopporto la gente che piange. «Non so come è successo. Ma ora sogno le voci come fossero immagini. Macchie di colore, glitter. Capisce?»
Guardavo il timer della cancellazione senza prestare attenzione alle sue lamentele. Il procedimento avrebbe richiesto dodici minuti e una dose elevata di korexina, una sostanza che dissolve le sinapsi più giovani come il taraxin sulle incrostazioni della doccia.
«Dimenticherà solo il brano, ma non la vergogna. Quella non è codificata, mi dispiace.»
«Va bene, va bene. Voglio solo non doverlo più ballare nel sonno.»
Avviai il processo.
In quel momento, dieci piani più in basso, cominciarono a formarsi chiaramente le voci e i passi di un corteo: una banda di ragazzine in mirex colorati, con i capelli a nastro magnetico, urlavano slogan incomprensibili ma pieni di erre affilate. Una di loro doveva avere un amplificatore neurale da qualche parte, perché la trasmissione arrivò forte e chiara: «Interruzione 6.7.1».
Mentre il ricordo evaporava dal cranio dell’uomo e così pure la traccia, ammorbidendogli viso e respiro, quegli stessi suoni riempirono l’aria.
Mi fermai un secondo, valigetta chiusa, interfaccia scollegata. Sentii un riverbero nel mio stesso impianto uditivo: «RedCorp, un’altra volta», e poi: «Non dimenticateci mai».
Mi guardai le mani, cominciarono a tremare, il segno che il contagio aveva fatto il suo salto. Scesi le scale senza contare i piani, là sotto la città rideva, o forse cantava, e intanto qualcosa – non io – iniziò a ballare. «Non dimenticateci mai».
Eleonora Quintavalle

