Francesca d’Aloja: un viaggio sentimentale tra corpi speciali, parole ed eroi. Intervista alla scrittrice

 Francesca d’Aloja: un viaggio sentimentale tra corpi speciali, parole ed eroi. Intervista alla scrittrice

Definirla solo attrice, solo regista e solo scrittrice sarebbe riduttivo, o poco esplicativo. Diciamo che Francesca d’Aloja ha toccato tutte le forme d’arte professionalmente e oggi parliamo di quel lato letterario che l’accompagna dal 2006, quando pubblica il suo primo romanzo “Il sogno cattivo” edito da Mondadori.
A gennaio di quest’anno  è uscito il suo libro “Corpi speciali” che, per noi di Rivista Blam, è stato un’illuminazione sia per il contenuto che per la forma: una rassegna di persone e personalità di cui la scrittrice ne ha dipinto i ritratti come un artista. Tra Albert Camus, etichette sociali, inverni, premi e nostalgie vi presentiamo Francesca d’Aloja.

 

Il tuo ultimo lavoro si chiama “Corpi speciali” uscito per La nave di Teseo. È un libro che dipinge dei ritratti straordinari di gente che ha attraversato la tua vita direttamente e indirettamente. Chi sono i corpi speciali e come possono influenzare il mondo?

Il compito di influenzare il mondo si riserva a coloro che possono cambiarne il destino, le sorti. Non so chi dei miei Corpi possa caricarsi di una responsabilità così impegnativa, so che ciascuno di essi e ciascuno a suo modo ha influenzato il mio mondo, il mio mondo interiore, intendo. Alcuni attraverso insegnamenti diretti o esperienze in comune, altri attraverso le imprese compiute, le vittorie, ma anche i fallimenti, hanno condizionato il mio modo di pensare o di ragionare sulla vita.

C’è Vittorio Gassman, Laura Antonelli, Luca Prodan, Il lama bianco, Lucia Joyce. Si salta da un’epoca all’altra tra la storia, il cinema, la musica, la danza, la malattia. Immagino ce ne saranno altri di corpi speciali non inseriti. Qual è stato il criterio di scelta, e chi è rimasto fuori dal racconto del tuo libro e perché?

Il criterio di scelta è stato innanzitutto sentimentale. Ho pensato a persone a cui ero legata, non necessariamente per averle conosciute, che mi avevano trasmesso forti emozioni. Mi sembrava bello poter restituire attraverso la scrittura le stesse emozioni (il tema della restituzione, del risarcimento è l’ossatura del libro). Il racconto su Laura Antonelli era stato pubblicato anni fa su Nuovi Argomenti e ricordo che provocò, in chi lo lesse, molta commozione. Tutto è cominciato da lì. Non mi ero mai cimentata nel genere biografico e infatti non è a quel genere che mi riferisco, non sono una biografa né tantomeno una storica. Racconto storie, personaggi. Diciamo che in questo caso mi sono immedesimata nel ruolo di ritrattista, ho lavorato come un pittore che non si limita a restituire la fisionomia di un volto ma ci aggiunge la sua intima visione, la sua personale rappresentazione. E infatti questo libro mi fa pensare a una immaginaria passeggiata all’interno di una pinacoteca, nella quale sono esposti dei ritratti: alcuni li riconosciamo, altri ci incuriosiscono. Certamente esistono altri Corpi che mi sarebbe piaciuto dipingere, penso a Bernardo Bertolucci al quale ero molto legata, ma anche a Carlo Mollino che non ho mai conosciuto o a Mark Hollis, il leader dei Talk Talk al quale ho dedicato un ricordo, scritto durante il lockdown. E poi, mio padre, che avrei potuto raccontare in due capitoli distinti: l’uomo che ho conosciuto (per soli quattordici anni) e quello che avrei desiderato conoscere. Due figure scisse, una reale, l’altra immaginaria. Una nostalgica, l’altra immaginifica. La prima plasmata dal ricordo, l’altra dal rimpianto.

Come si distingue un corpo speciale da un altro?

Ognuno ha il proprio modo di distinguerli! A ciascuno il suo, direbbe Sciascia. Nel mio caso ho capito, dopo averli selezionati, che avevano un denominatore comune: la sete di conoscenza e la capacità di perseguire un obiettivo fino alla fine, malgrado gli ostacoli e le difficoltà. Sono tutte persone curiose, curiose della vita intendo, e questo, forse, è l’elemento che ci accomuna.

Ci racconti il tuo rapporto magico con Albert Camus? Come ha inciso sulla tua vita.

Ho frequentato una scuola francese dall’asilo alla maturità e per questo motivo le mie conoscenze letterarie sono principalmente francesi (sappiamo quanto i francesi siano legati alla propria cultura..!). Camus l’ho dunque studiato a scuola ma ho subito provato nei confronti della sua opera e oserei dire della sua persona, un’affinità istintuale. La sua scrittura asciutta, precisa, mai ridondante è per me un riferimento fondamentale. La lettura de Lo Straniero è stata una rivelazione, è un romanzo potente, essenziale e perfetto. Mi ritrovo spesso a leggere i suoi pensieri, a volte così profetici e dunque sempre attuali, e ogni volta resto incantata di fronte alla sua capacità di esprimere concetti talvolta profondissimi nella forma più chiara possibile. La lucidità di vedere, ascoltare, capire e infine restituire: che grande lezione! E poi era un uomo giusto Camus, un grande intellettuale ma anche un meraviglioso essere umano.

Una delle storie più emozionanti raccontate nel libro è quella della spedizione Endurance di Ernest Shackelton. Esperienza coraggiosa che, se letta dalle tue parole, scuote gli animi. Qual è il fil rouge che collega te e questa storia?

Non nascondo la mia attrazione nei confronti di figure maschili eroiche, credo dipenda dal fatto che sono cresciuta senza un padre. Teresa Ciabatti ha definito Corpi speciali un libro sulla ricerca del padre, effettivamente è così, anche se non è stata una scelta deliberata… Shackleton rappresenta la quintessenza dell’uomo/padre che ti protegge, ti conforta e ti salva. Gli uomini del suo equipaggio, perduti nel ghiaccio, nel luogo più inospitale e crudele del pianeta, sono riusciti a sopravvivere perché non si sono mai sentiti abbandonati. Shackleton li ha sostenuti, incoraggiati. Sentendosi responsabile del loro destino ha fatto di tutto per trarli in salvo, senza mai risparmiarsi, dando loro l’esempio, e così facendo ha dato a noi tutti una lezione di coraggio e resistenza. Ernest Shackleton è per me un nume tutelare, e quando mi trovo in difficoltà è a lui che penso.

Sei attrice, regista, scrittrice. Hai lavorato in vari ambiti in cui si utilizzano le parole: scritte, parlate, guardate. Qual è il loro potere e come viene fuori da ognuna di queste tre forme d’arte (scrittura, immagini filmiche, recitazione)?

Il potere della parola è l’unico potere che riconosco e al quale mi sottometto. Se la parola non viene esercitata, sollecitata, distribuita, si torna all’età della pietra. Cos’è che lega i mestieri che ho fatto e che faccio? La parola. Io esercito, attraverso il mio mestiere, il potere evocativo della parola. Non giudico ma osservo, sapendo che il mezzo attraverso il quale mi esprimo può essere portatore di verità e menzogna, ma anche di persuasione, di suggestione. E ne ho un profondo rispetto.

Se dovessi descrivere in tre aggettivi la tua scrittura, come la definiresti e perché?

Dinamica, essenziale, sincera. Cerco di non essere noiosa, di non sbrodolare, di evitare la retorica, l’abbondanza di metafore o similitudini, e di restituire la mia voce (è fondamentale avere una propria voce) con semplicità e immediatezza. Ci sono scrittori che vogliono dimostrare, in ogni pagina, quanto sono bravi. Ecco, quando percepisco, sia come scrittrice che come lettrice, lo sforzo, l’esibizione, fuggo.

Segui il Premio Strega? Mi daresti un’opinione sull’edizione 2020?

Il Premio Strega l’ho seguito soprattutto nel 2016, l’anno in cui il mio compagno Edoardo Albinati vinse con La scuola cattolica. Questa edizione 2020 verrà ricordata non soltanto per l’aspetto surreale della serata dipeso dalle disposizioni sanitarie che ben conosciamo, ma anche  perché ha creato due significativi precedenti: la vittoria bis di Sandro Veronesi, meritatissima, il Colibrì è il miglior romanzo dell’anno (in effetti non si capiva perché un autore premio Strega non potesse più concorrere dal momento che il premio si assegna a un’opera, pensiamo agli Oscar, ma anche al Pulitzer) e la vittoria di una casa editrice come la Nave di Teseo, che ha incrinato l’egemonia dei colossi editoriali. L’affetto che mi lega a Sandro Veronesi e a Elisabetta Sgarbi mi ha resa emotivamente partecipe di questa incredibile edizione 2020. Come conseguenza immediata prevedo un assalto al premio da parte di tutti gli ex premi Strega!

Cosa ne pensi dei premi letterari?

Tendo a credere che raramente venga premiato il valore letterario di un libro (tranne alcune eccezioni, vedi risposta precedente) e che in gioco entrino altri elementi, talvolta preponderanti. È un meccanismo consono alla logica dei premi, valido anche per altre discipline artistiche. Accade spesso che gli esclusi siano più meritevoli degli eletti. Detto ciò non sono affatto contraria all’istituzione dei premi letterari, se non altro perché accendono un riflettore su un settore troppo spesso escluso dall’attenzione pubblica. Insomma, pur non considerando il mondo dei premi letterari “sommamente ottuso” come sentenziava Thomas Bernhard, non gli attribuisco un valore supremo.

Uno dei drammi della società umana, a mio parere, sono le etichette. Quelle cose invisibili che ci appiccicano addosso una volta nella vita e che è difficile staccare. Se sei femmina devi truccarti e giocare con le bambole (come se il contrario non fosse possibile), se per anni hai fatto l’attrice, poi non puoi metterti a scrivere. Se sei uomo non puoi piangere, se sei donna non sai guidare e devi fare figli. Qual è il tuo rapporto con questi adesivi invisibili?

Come si dice, sfondi una porta aperta… Sapessi quanto mi riesce difficile farmi prendere sul serio. Ho scritto cinque libri ma ancora sono “l’attrice che scrive”. Percepisco, sotterraneo, un pregiudizio tutto sommato figlio del classico luogo comune attrice/oca. Ho il terrore delle etichette, forse per questo mi sono cimentata in diverse attività, anche se poi la gente ha bisogno di mettere una didascalia sotto al tuo nome. Che cosa fai? E dunque: che cosa sei? Se fai tante cose sfuggi al meccanismo identificativo e non sanno dove metterti… ma questo per me è un bene. Nemmeno io saprei dove mettermi…

Facciamo un gioco emotivo. Se ti dico nostalgia cosa ti viene in mente?

Gli anni ’70, che rimpiango in ogni loro forma ed espressione. È stato il decennio più emozionante e interessante che abbia vissuto, anche se molto piccola ricordo perfettamente il sapore di quegli anni dei quali sono spudoratamente nostalgica. Tendiamo sempre a classificare quel periodo come gli “anni di piombo” senza considerare quanto sia stato prolifico da un punto di vista artistico. Basta andare a guardare i titoli dei film o dei dischi usciti per esempio nel ’75 par farsi un’idea.

E inverno?

Prigione.

Se dovessi ritrovarti in una dimensione spazio-temporale in cui è ammesso avere con sé un solo libro, quale sceglieresti di portarti perché leggerlo tante volte non ti stancherebbe mai?

Il manuale Merck. Potrebbe essere utile (!)

C’è qualcosa che non ti ho chiesto e che volevi dirmi?

Sì: Come definiresti il tuo libro?

Una struggente dichiarazione d’amore.

a cura di Antonella Dilorenzo

 

 

Antonella Dilorenzo

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *