Daniele Mencarelli: sentimenti, libri, parole e salvezza di uno scrittore. Intervista

 Daniele Mencarelli: sentimenti, libri, parole e salvezza di uno scrittore. Intervista

Non chiedetegli cosa pensa del tempo, vi dirà che odia la nostalgia. Provate invece a stuzzicarlo sugli argomenti che riguardano la scrittura, vi si aprirà un mondo che parte dalle riviste letterarie, vola sulle parole pensate e atterra su quei libri dai quali non si può prescindere.

In questa intervista a braccio (sì, gli abbiamo chiesto tutto quello che ci veniva in mente senza menzionare mai il Premio Strega, ma solo per un caso) dove una domanda ha tirato l’altra, vi raccontiamo un Daniele Mencarelli Essere Umano tra sentimenti, parole e salvezza. Da noi stessi, da questo mondo.

 

Qual è la prima cosa che farà il Daniele Mencarelli scrittore dopo la pandemia?

Mi divertirò a scrivere come potrebbe essere una grande festa laica in onore della morte della pandemia.

Cosa ti fa più paura di questo periodo?

Una serie di aziende si stanno attrezzando per il mantenimento dello smart working. Ecco, questo mi fa più paura della pandemia. L’uomo domestico (dal mio punto di vista), è quell’idea di bozzolo in cui ci ritiriamo a vivere pensando che tutto sia sotto controllo e gestibile. Ma la bellezza dell’essere umano è che l’incontro è fatto di carnalità, chimica che esiste solo in presenza e non a distanza.

Cosa è cambiato in questo momento storico?

Quello che cambia è sulla percezione del mondo: meno siamo presenti nella realtà, tanto più siamo manipolabili dalle narrazioni rispetto alla realtà. E questo per me è molto pericoloso, tanto più sei isolato tanto più hanno la facilità a raccontartela come dicono loro. In ogni settore: merceologico, sentimentale, umano, ideologico. La bellezza della vita è stare, guardare e vivere con gli occhi propri.

Lo scrittore, che secondo me è prima un pensatore, per scrivere deve vivere la vita. In questo momento come può con la sua narrazione descrivere e aiutare il mondo stando in casa? Dare la percezione ai lettori di raccontare ancora delle storie pur “non vivendo”.

Innanzitutto, mi è piaciuta la tua premessa perché oggi c’è questo equivoco di fondo – drammatico per certi aspetti – che lo scrittore sia uno che sa scrivere, che è tutto sommato condivisibile ma assolutamente minimale rispetto alla realtà, perché poi chi scrive parte da una poetica, da una serie di valori e disvalori, di visione del mondo e dell’uomo, e concepisce la scrittura come un atto politico. Nei miei romanzi c’è sempre di fondo un ragazzo che viene restituito nella realtà, rinasce nella realtà, e questa rinascita gli permette di fare un passo in avanti rispetto alla poetica, alla sua visione. L’uomo si salva con la realtà e dentro la realtà e al di fuori di questa relazione spesso c’è un naufragio anche molto misero e banale.

Visto che parliamo di realtà dentro e fuori di noi, viriamo sui social network: se ti dovessi dire Facebook e Instagram cosa ti viene in mente in relazione anche alla costruzione dei rapporti.

Parli con un uomo che ha fatto una scelta non ideologica ma umana. Ho deciso di non avere canali social, non perché critico lo strumento, ma conoscendo i miei trascorsi e sapendo che nella mia vita il problema della gestione si presenta sotto spoglie diverse continuamente ho detto “provo a farne a meno”.

Ho dimostrato a tante persone che alcuni meccanismi, che magari ragazzi più giovani credono essere nati con il web e il social, esistevano anche prima, magari in una forma rudimentale. Ad esempio, la viralità non ha inventato nulla, esisteva il passaparola. I libri, i film spesso uscivano alla lunga, sulla distanza, perché accompagnati da questo meraviglioso veicolo gratuito, ingestibile, incontrollabile di promozione. Ho utilizzato tre termini che non possono essere attribuiti ai social network che sono gestibili, controllabili e dominabili. Non sento la mancanza, ma perché non li ho mai avuti.

Questi poi sono strumenti che agiscono in maniera diretta sulla vanità e l’elemento seduttivo è fortissimo, entrare nel trip competitivo a me spaventa.

L’editoria ha due anime che potremmo dividerle in forma e sostanza, dove la prima è il marketing, la promozione e il profitto; la seconda è il messaggio, l’emozione e la crescita che ci offre un libro. Come si intersecano e convivono queste due anime?

Oggi nel mondo dell’editoria domina l’uomo di marketing, non l’editore. Dove il primo non sa scommettere sul contenuto perché ha sempre bisogno di un termine di paragone. La prima cosa che ormai ti chiedono quando fai questo lavoro, parlo anche di film e fiction, è “a che assomiglia?”. E questo è un problema perché è una limitazione alla libertà umana e a quella d’impresa. Perché arrivano prima quelli che hanno più soldi. E anche il sistema dei social network rischia di essere a favore dei ricchi e dei potenti se vuoi investire per fare numeri.

Tu che sei riuscito ad arrivare così in alto nel mondo dell’editoria e l’hai fatto senza questi “nuovi” metodi. Come ce lo spieghi?

Questa domanda mi fa correre un rischio enorme. Io odio la nostalgia e non amo i nostalgici sotto nessun punto di vista. Però, io ho iniziato a pubblicare in un mondo analogico: ho scritto il primo libro a macchina. A un certo punto l’editore mi disse: “Guarda noi dobbiamo trasportare tutto su floppy e mi dissero, almeno questa cosa falla te.

Questa cosa, in qualche modo, si collega alle riviste letterarie nate molti anni fa?

Tempo fa lo scrissi anche su Il Foglio: “Cari nativi digitali, non potete capire cosa erano le riviste”.

La rivista letteraria era uno strumento straordinario. Approcciava in termini di gerarchia rispetto al mestiere della scrittura e non creava l’illusione che ha dato la rete che tutto valga e niente valga. Perché la carta, l’oggetto tangibile, era comunque un traguardo molto grande. Su queste riviste si creava un movimento di attenzione affettivo-relazionale: si instauravano rapporti e affinità che duravano anche a distanza di tempo perché prima di essere pubblicati bisognava aspettare pure anni. Si cresceva, come l’allievo e il maestro. E in quella militanza o ti odiavi o ti stimavi con altri.

Si è parlato di attese, lunghe attese. Che rapporto hai tu con il tempo sia dal punto di vista personale che sul lavoro?

Il mio rapporto con il tempo è complicato. Sono molto impaziente e il rapporto tra tempo e pazienza è importante. Quello che vuole fare il tempo di noi, non è quello che noi vogliamo fare del tempo. Lui ha un progetto, noi un altro, lui pianifica in un’ottica gigantesca rispetto al nostro sguardo e questo genera conflitti. Noi vorremmo una cieca obbedienza, che tutte le forze della natura obbedissero a noi.

Se lo penso in relazione alle risposte che ottenevo o non ottenevano quando inviavo uno scritto, credo questo aspetto sia molto importante se collegato al concetto di attesa.

Io ho vissuto dolore, frustrazione, amarezza, quella di mandare una lettera prima e una mail dopo e non ricevere risposta. Non mi sentirei bene con l’uomo che sono se obbedissi allo stesso meccanismo e di fregarmene delle richieste degli altri, tant’è vero che rispondo a tutti. Questo può essere un buon modo di governare il tempo.

Premetto che non ho un buon rapporto con le etichette sociali o con i sottopancia televisivi, che ci spingono a collocare qualcuno in ranghi, in linee per identificarlo, ma una domanda devo comunque fartela. Cosa ti ritieni? Un divulgatore, uno scrittore?

Mi viene in mente un episodio: qualche tempo fa ho registrato una puntata per Rai Italia. Il redattore che si occupava del video mi chiese: “Che sottopancia mettiamo?” e io risposi: “Metti: Daniele Mencarelli essere umano”.

Ecco, le etichette sociali sono ridicole.

Se parliamo di letteratura, allora mi sento di dire che l’etichetta dello scrittore è un’etichetta borghese. Il 900 ha dato la possibilità a persone come me – che vengono da una famiglia che non è affatto ricca o borghese – con il lavoro e tempo, di arrivare a buoni risultati. Questa possibilità sociale non mi sarebbe stata data un secolo prima, due secoli prima avrei vissuto la vita da bracciante e sicuramente non sarei nemmeno arrivato all’alfabetizzazione. Il ‘900, i nostri anni, mantengono il principio della classificazione sociale borghese, nel senso che 9 scrittori italiani su 10 sono borghesi e hanno fatto pochissima fatica per arrivare all’etichetta. Quando nasci in certi posti, scegli quale etichetta metterti, puoi dire: “voglio fare lo scrittore, il regista, il musicista” e le difficoltà che incontrerai saranno ridotte perché sei nato in un contesto che ti permette molta meno fatica, meno delusioni, meno porte in faccia. Questo ha i suoi aspetti positivi: magari a 25/28 anni pubblichi con un grosso editore, ma il rovescio della medaglia qual è? Non imparerai mai che una porta in faccia fa male e ne darai tante agli altri perché tu non l‘hai mai provata. Quanti non sanno nemmeno cosa stanno facendo agli altri in termini di dolore perché non hanno mai sperimentato?
Loro avranno anche molto meno da raccontare.

Cos’è per te il disagio emotivo? Ti ha aiutato nel fare quello che fai?

Parto dal presupposto che tra disagio e scrittura non c’è relazione. Diceva Pasolini: “Si è scrittori non grazie alla malattia, ma malgrado”. Sgombro il campo, infatti, perché questo rapporto tra disagio e scrittura sta facendo danni enormi. Molto spesso lo scrittore vive un disagio ma non è il motore della scrittura, che viaggia su un altro binario.

Sicuramente, chi scrive colloca il proprio sguardo al confine con il disagio, ovviamente parlo di una scrittura che si affaccia ai temi dell’esistenza. La mia, ad esempio, parla di vita, morte, dio, assenza, presenza, tempo, e indaga in un territorio umano preborghese e presociale. La militanza in questi temi mette in conto anche il disagio che io ho vissuto, che poi è identico per tutti e non fa differenze di casta e religione.  La scrittura per me ha come territorio d’indagine quello dell’umano e come diceva Basaglia: “La malattia mentale è il confine dell’umano” non sta al di fuori dell’umano.

Quanto è pericoloso scrivere libri autobiografici a livello di identità pubblica?

Io ho deciso volontariamente di creare un personaggio letterario con il mio nome e cognome e l’ho messo in conto. Io trovo ridicola qualsia forma di classificazione letteraria. Tutto quello che c’è prima della stesura non importa, importa nella misura in cui diventa lingua e scrittura che poi sia immaginifica, reale, astrattiva non mi interessa.

Quando sento i ragazzi che sovrappongono il personaggio letterario Daniele Mencarelli e il sottoscritto io dico una cosa che non ho mai detto a nessuno: “È tutto inventato”, cosa cambia per voi? A parte la delusione umana del momento, nell’esperienza di lettura cosa cambia? Voi avete la possibilità di parlare con me di quei libri perché vivo. Se fossi morto ieri questa possibilità non ce l’avreste e vi orientereste solo verso l’oggetto in sé che è la scrittura.

Io mi rendo conto di essermi infilato in un ginepraio nel momento in cui ho deciso di dare il mio nome e cognome ai protagonisti dei miei libri, ma io l’ho vissuto come un atto di trasgressione. Quando scrivevo il libro, ero proprio consapevole che c’era volontà di provocazione.

Quali sono i tuoi libri del cuore?

Pianissimo di Camillo Sbarbaro, Morte segreta di Dario Bellezza, Canzoniere di Umberto Saba. Queste sono tutte mie letture adolescenziali, e le letture che fanno il nostro sguardo sono quelle che si fanno fino ai vent’anni. Non posso non nominare Se questo è un uomo di Primo Levi, Deserto dei tartari di Dino Buzzati e l’Idiota di Dostoevskij.

In Tutto chiede salvezza, uno dei protagonisti, Giorgio, si arrabbia perché gli viene negata la possibilità di vedere un suo amico in ospedale. Cosa rappresenta per te la rabbia?

La rabbia è un sentimento che frequento ancora molto spesso. Vedo la mia natura, i miei aspetti positivi e negativi come due facce della stessa medaglia. La rabbia è il momento in cui questa grande energia interiore che ho finisce per non essere utilizzata e non essere controllata e diventa qualcosa che mi si ritorce contro, sta a me farla diventare una forma di carburante positivo. Sta a me di giorno in giorno non farla incattivire, ma utilizzarla per scopi pacifici, per scopi che scelgo io senza far scegliere a lei.

Ognuno ha un modo modo di salvarsi. Daniele Mencarelli come si salva? 

Si salva con dialoghi come questo, come con quelli che ho inaugurato in “Tutto chiede salvezza”. La mia salvezza viaggia in due direzioni: orizzontali e verticali. Per me esiste una salvezza da tutto quello che nel mondo non funziona e che potremmo sanare, però poi non mi accontento di una salvezza orizzontale e spero anche in una salvezza da questo mondo. Ma sono certo di una cosa, e “Tutto chiede salvezza” è una prima pietra, il primo modo per salvarsi è iniziare a relazionarsi con persone che hanno lo stesso nostro desiderio di salvezza e non lo nascondono.

a cura di Antonella Dilorenzo

Antonella Dilorenzo

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