Una casacca di seta blu: la storia di Béla Guttmann, l’allenatore illusionista. Recensione

 Una casacca di seta blu: la storia di Béla Guttmann, l’allenatore illusionista. Recensione

Di libri di sport ne sono stati pubblicati molti. Di storie epiche di corridori, calciatori, atleti che ci hanno emozionato, ne abbiamo sentito spesso parlare. Ma dietro agli sportivi, alle loro imprese iconiche di forza, motivazione e fatica fisica c’è sempre una mente, quella che ci crede, che si carica ogni giorno, che piange e trionfa insieme al corpo. Insieme all’anima.

E di menti strateghe, geniali, passate alla storia ce ne sono sì, ma solo alcune brillano poi come astri.

Una casacca di seta blu: trama del libro di Paolo Frusca

Il romanzo racconta la storia di Béla Guttmann, allenatore illusionista (come la storia l’ha definito) che cominciò la sua carriera da calciatore per finirla come coach di varie squadre: Milan, Porto, San Paolo, Benfica. Nel 1961 e nel 1962 portò proprio il Benfica a vincere due coppe dei Campioni. Un aneddoto passato alla storia come “la maledizione del Benfica” lo riguarda. È noto, infatti, che in seguito alle due vittorie ebbe un diverbio con i dirigenti della squadra per via di un bonus non pagato. Si narra che Guttmann andò via sbattendo la porta e pronunciando la frase: “Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa e senza di me il Benfica non vincerà mai una Coppa Campioni”. Dal 1962 a oggi il Benfica ha disputato 9 finali perdendone altrettante.

Una casacca di seta blu non ha la pretesa di essere un romanzo storico-sportivo che ripercorre pedissequamente le vicende della vita di Béla Guttmann, come riporta lo stesso Frusca: “Mi interessava di più cercare di cogliere altri aspetti del suo straordinario carattere, della sua prospettiva sulle cose e della sua universalità da cittadino del mondo”.

In effetti, in questo libro Guttmann è il personaggio di primo piano con due valenze cronologiche: si alternano parti in cui è protagonista, da sportivo, di fatti ambientati negli anni a cavallo tra le due guerre mondiali in cui a raccontare è un suo amico giornalista, Willi Kudlacek; e parti in cui è lui, oramai anziano, a narrare le vicende al figlio di Kudlacek, Martin, andato a trovarlo in ospedale, dove è ricoverato, per parlargli di un diario scritto da suo padre e che racconta proprio la storia dell’allenatore. Comincia da qui un avvicendarsi incalzante di storie che incuriosiscono il lettore fino all’ultima pagina.

Una partita a scacchi della narrazione

Se dovessimo riportare un’immagine della struttura narrativa di questo romanzo, la plasmeremmo nella mente come una scacchiera, dove le pedine sono i personaggi di una partita che Frusca ha giocato alla grande. L’autore è capace di muovere le parole e la storia in modo strategico per appassionare il lettore e chiedersi se poi, alla fine, sarà scacco matto. Introduce personaggi di finzione come Martin e Willi Kudlacek che servono da assist per portare in gioco pedine esistite realmente come Hugo Meisl, Arpad Weisz, Matthias Sindelar, Cesare Maldini e raccontare la loro storia; appassiona con un dettaglio ripetuto a capitoli alterni: formazione e punteggio di ogni partita di calcio reale accennata nelle pagine precedenti; porta il lettore in un viaggio che non parla solo di calcio, ma anche di storia saltando dalle vicende a cavallo tra le due guerre, sino alla fine degli anni ‘70.

Narrazione precisa e dettagliata: l’unione tra realtà e finzione

Quando si entra nel profondo della narrazione – e non ci si mette molto a farlo – il confine tra realtà e finzione viene annientato: non è più chiaro dove comincia la storia vera e dove quella di fantasia. E questo è dovuto tutto alla penna eccellente di Paolo Frusca che è riuscito, per la prima volta, a staccarsi dal racconto a quattro mani e a lanciarsi in una narrazione solitaria che ha portato sicuramente i suoi frutti.

Non si perde l’alternanza delle storie da un capitolo all’altro – esperimento riuscitissimo già nel libro “L’ultima estate di Berlino” dello stesso autore scritto a quattro mani con Federico Buffa, anche lì uno dei protagonisti è un giornalista. Dunque, la storia cambia prospettiva a tempi alterni: se un capitolo narra le vicende dal punto di vista del padre di Martin, cronista sportivo; dall’altro si salta nell’attualità degli anni ’70 dove a raccontare è un Guttmann vecchio che è in possesso di tutte le nozioni della storia per poterle restituire, da saggio, a uno Junge Mann (Giovane uomo), come lui sceglie di chiamarlo.

Nel nome del calcio

Una postilla a questa lettura va fatta: ogni pagina del romanzo è carica di fatica, emozione, motivazione, lacrime di gioia e dolore. Tutte sensazioni che il calcio fa vivere ai protagonisti, come allenatori e calciatori, e agli spettatori. E se c’è una frase che può racchiudere il senso di Una casacca di seta blu è sicuramente questa: “Il calcio. È lui il protagonista, al centro della mia vita, come di quella di tuo padre, poiché io, tuo padre e molti altri al calcio tutto dobbiamo”.

 a cura di Antonella Dilorenzo

 

 

 

 

 

Antonella Dilorenzo

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