La gioia avvenire di Stella Poli: un romanzo su abusi e responsabilità della giustizia. Recensione

 La gioia avvenire di Stella Poli: un romanzo su abusi e responsabilità della giustizia. Recensione

La gioia avvenire (Mondadori, 2023) è il primo romanzo della giovane scrittrice piacentina Stella Poli. L’opera è rientrata nella rosa dei dieci finalisti alla XXXIV edizione del premio Calvino. Traduttrice freelance, docente e assegnista di ricerca in Linguistica italiana presso l’Università di Pavia, Poli insegna anche Editing della poesia contemporanea per MasterBook allo Iulm ed è redattrice per le riviste culturali «Trasparenze» e «La Balena Bianca». Prima di questo esordio da romanziera, ha pubblicato racconti, saggi, studi accademici, poesie e traduzioni su numerose riviste. Il suo racconto Per gli amori tristi è stato finalista del progetto speciale «Da un’illustrazione a una storia» realizzato da Rivista Blam! in occasione della Biennale del MArteLive 2022.

La gioia avvenire di Stella Poli: la trama del libro

Sara, psicoterapeuta trentenne, abbigliamento severo e capelli raccolti, si reca nello studio di un giovane avvocato milanese per chiedere un parere legale sul caso di Nadia, una sua paziente. Con l’aiuto delle memorie scritte dell’assistita, Sara ricostruisce il caso di Nadia: la giovane, oggi ventitreenne, è stata vittima di violenze durante gli anni dell’adolescenza, abusi contro i quali non si è mai proceduto legalmente, nonostante due tentativi di denuncia alla polizia. L’obiettivo della dottoressa, che fa da mediatrice e filtro degli eventi, è quello di fare luce su quanto accaduto e ottenere finalmente giustizia a favore della giovane ragazza attraverso un processo, nonostante siano passati ormai nove anni dai dolorosi avvenimenti.

Entro la cornice del colloquio fra il legale e Sara, la narrazione – che alterna la terza persona alla prima – ripercorre gli snodi decisivi della vita di Nadia: dalla sua infanzia traboccante di felicità e pienezza, quando indossava ancora occhiali tondi, portava capelli da maschietto e si addormentava cullata dalle storie della buonanotte; fino alle prime liti fra suo padre e sua madre, le vacanze al mare trascorse in case differenti, la definitiva separazione dei genitori quando lei ha undici anni, e il trasferimento con la madre in una nuova casa. Proprio in questo contesto di disgregazione familiare la vita di Nadia si inceppa ed entra in un cortocircuito di dolore e impotenza.

Nadia ha quattordici anni quando viene violentata. Tredici quando riceve le prime avance da parte di un amico del padre, un quarantenne sposato, un professionista stimato, impegnato nella politica, credente praticante e apprezzato dall’intera comunità, un uomo di cui sarebbe impensabile non fidarsi. E infatti Nadia si fida, in prima battuta non è consapevole di ciò che sta accadendo, si lascia blandire dalle attenzioni di quell’uomo, sempre meno ambigue, sempre più frequenti: «Il poco pericolo che la mia quattordicennità mi consentiva d’intravedere, lo nascondevo sotto l’onda dolce del turbarmi, del turbarmi del turbare». L’avvicinamento di quell’uomo e il suo insinuarsi nella quotidianità di Nadia è lento, subdolo, fatto di passi misurati, discreti quanto basta perché non sia notato: inizia col fissarla dallo specchietto della macchina, a darle ragione quando parla, a ridere alle sue battute. Poi, a Nadia arrivano i primi messaggi sul cellulare, il buongiorno e la buonanotte, una rosa una volta alla stazione di Bologna mentre è con la madre, frasi a bordo piscina mentre lei è in costume: «È una cosa lentissima, non bisogna pensarla di fila. Ci vuole almeno un anno, un anno tutto di movimenti minuscoli, pulviscoli, avvicinamenti così “quasi” che non li puoi neanche dire, figurati a non saperli».

Nel tacito assenso generato dall’impotenza e dall’obbedienza, il salto dalle allusioni agli abusi nella macchina di lui è un attimo, e i ricordi vengono rievocati come frammenti lucidi e spinosi della memoria: «Il primo bacio che sa di tabacco una sera d’estate, sapore denso, limaccioso che non va più via. […] È una storia tattile, giocoforza, una storia di sensi vicari. Il sapore del tabacco che mi nausea è il primo sapore che non va più via». Salita su una giostra da incubo, intrappolata in una relazione abusante, che non ha voluto ma che non ha evitato fino in fondo, quando sottrarsi sarebbe stato molto più semplice che in seguito, Nadia aspetta alcuni mesi prima di denunciare, prima di pretendere per sé un risarcimento per quanto subito. La dolorosa constatazione della reazione di rifiuto della verità e di allontanamento da parte dei familiari a seguito della denuncia, non toglierà lucidità alle consapevolezze acquisite da Nadia: «Una delle poche cose che ho capito. Che l’unica cosa che dobbiamo tenerci saldissima è questa: concederci, soprattutto concederci, non che ci concedano, di scegliere. Rinegoziare, sottrarsi. Cambiare idea. Smettere. Se tutto è rapporti di potere, il potere di me che scelgo è dilagante. (Tutto è rapporti di potere?)».

L’opera, che ha la forma di un romanzo breve, non lascia nulla al caso, lasciandoci sospesi, e poi improvvisamente sorpresi di fronte a una fondamentale, ormai inequivocabile, rivelazione, che getterà una nuova luce sulle vicende e sui personaggi.

La gioia avvenire di Stella Poli: il racconto come affrancamento e riscatto

Una narrazione intensa, incisiva, potente, che si deposita sul fondo delle pagine come il precipitato di un dolore passato diventato ormai viscerale, radicale. Un racconto che si interroga su quanta giustizia si può trovare nella giustizia – anche quando il tempo sembra essere scaduto –, sul perpetuarsi delle ferite trascorse sull’esperienza presente, sulla paura e il senso dell’abbandono. Il fine del romanzo non è la redenzione di una colpa – le responsabilità dell’abusante sono inequivoche –, ma il desiderio di riscatto personale e la liberazione di chi è stata vittima di quegli abusi. Una lenta catarsi resa possibile dal semplice raccontare, dall’aprirsi all’altro, la via della narrazione come uscita dalla prigione del proprio dolore: «Perché a non dirle, le cose, restiamo compatti come le sfere, abbiamo altre incidenze, traiettorie, solvibilità. Ogni parola ci sfrangia come un handicap, si fa tallone, lembo afferrabile, giugulare che spunta, dove giugulare non c’era».

La narratrice della storia, consapevole del fatto che le ferite sono cicatrici che non si dimenticano e non vanno dimenticate perché «l’esperienza trova sempre il modo di traboccare», riscrive il suo passato con lo sguardo fisso a una felicità futura, una gioia avvenire.

La scrittura di Stella Poli in La gioia avvenire

Quella di Poli è una prosa spesso spezzata, ruvida e cruda come lo sono in fondo i fatti narrati, ma al contempo impastata e rimescolata in un ardito, e delicato, linguaggio poetico. Una scrittura pungente, che buca l’epidermide e penetra nelle emozioni rinchiuse sotto la corteccia dura dei ricordi, mostrando i pensieri e i sentimenti dell’animo umano nella loro più spoglia essenza.

A cura di Clara Frasca

Blam

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