La carne di Cristò Chiapparino: l’apatia del mondo in un romanzo sperimentale. Recensione

 La carne di Cristò Chiapparino: l’apatia del mondo in un romanzo sperimentale. Recensione

Un senso ultimo la vita non ce l’ha. Nasciamo e moriamo, e non ne sappiamo il motivo. Viviamo nel mistero dell’esistenza e se proviamo a dare una spiegazione, quella non arriva mai. Ma se dovessimo dare una forma alla realtà, al mondo in cui abitiamo, molto probabilmente lo potremmo fare leggendo il libro “La carne” di Cristò Chiapparino. Una ripubblicazione audace e ben riuscita della casa editrice Neo Edizioni che riprende un testo di vecchia stampa (Intermezzi Editore, 2015) dandole una nuova vita con una postfazione di Paolo Zardi.

La carne di Cristò Chiapparino: la trama del libro

In una realtà distopica l’unico bisogno definitivo dei morti viventi è la carne. Esiste solo la carne, quella di cui questi zombi (senza la “e”) si nutrono. Fanno le file nei centri comunali in un’apatia silenziosa solo per prendere il loro pezzo, mangiarlo e rimettersi nuovamente in fila. A vivere dall’esterno questo scenario senza una spiegazione, il protagonista e io narrante della storia: un anziano ottantenne con problemi di deambulazione che si affida alla sua “badante” Monica che va a lavarlo periodicamente. A gestire gli incontri, il nipote Giulio. L’unica azione che l’anziano compie è andare al cinema a vedere film porno e fumare una sigaretta. Il resto è immobilità, come quella del mondo che lo circonda che non è “il mondo di quando aveva otto anni”. Nella sua testa combattono due persone: se stesso da bambino (ricorda episodi segnanti della sua infanzia) e Tancredi, un medico immaginario coinvolto nella ricerca della soluzione all’epidemia diffusa di mangiatori di carne.

Narrazione su tre livelli come quelli dell’esistenza

I piani narrativi qui sembrano viaggiare sulla stessa linea: una storia, una trama, un filo conduttore. Ma se scandagliamo bene nel profondo andiamo alla soluzione massima: in “La carne” i livelli narrativi sono tre, tre come le età dell’uomo: l’infanzia, la giovinezza, l’età adulta. Ognuno incorporato in qualcosa che ha a che fare con la stessa persona. Un io bambino, un io immaginato e proiettato, un io attuale che poi si identifica con l’io narrante.

C’è un anziano, un adulto e un bambino. Sono forse la stessa persona, una proiezione della mente, un ricordo di quello che si era. A dimostrazione che noi, durante il corso della vita, siamo uno ma siamo tanti. Siamo molte persone e viviamo altrettante vite in uno spazio temporale che sembra scorrere sulla linea cronologica di un mondo che ci penetra, ci vive e oltrepassa.

Il senso della vita

Il senso della vita sta tutto in questo libro che, come dice Paolo Zardi, “non fornisce punti di riferimento noti, approdi sicuri”. Un po’ come la nostra esistenza.

Ed è così che i corpi vagano verso un ignoto a cui non interessa nemmeno dare una spiegazione.

Qui i morti non sono del tutto morti: si muovono nel mondo, si dispongono in file per chiedere e mangiare carne e vagano come zombi. I vivi, quelli che rimangono, sono spettatori a volte inermi che mantengono le distanze da loro per non essere contagiati.

“Quasi nessuno sopra i vent’anni li chiama zombi. È offensivo. Tutti si affannano a dire che non sono morti ma nessuno afferma mai che sono sicuramente vivi”.

Questa grande allegoria tematica è la dimostrazione letteraria che la vita e la morte non possono prescindere l’una dall’altra. Che se la vita esiste, è perché esiste la morte e viceversa. A dimostrazione che dobbiamo farci i conti tutti i giorni.

Voltando la medaglia di questa storia, però, potremmo scorgere un altro significato interpretativo: siamo tutti schiavi e seguiamo uno stesso obiettivo senza meta, come pecore, quello che ci viene proposto dalla società capitalista, dal costume. Ed è così che ci nutriamo di sostanze apparenti senza illuminare il cervello. Ci abbandoniamo a un divenire tecnologico, storico, politico che non ci appartiene se non si è del tutto dentro, se non si segue il passo (quello lento per chiedere la carne): se ne resta fuori e sembra di non vivere.

“C’è qualcosa nei loro occhi. Qualcosa di innaturale. Sembra non sbattano mai le palpebre. Come i morti. Però camminano, come i vivi, e mangiano, cazzo come mangiano. Non fanno altro. A loro interessa solo mangiare. Quando hanno finito di fare la fila, con il loro pezzo di carne in mano, tornano in fondo e ricominciano”.

La carne e la memoria dei corpi

Questo continuo bisogno di carne ti sbatte in faccia la realtà: siamo umani anche perché fatti di corpi; quei corpi che trattengono la memoria e svelano la nostra vera essenza. Una cicatrice, un’espressione, una forma: siamo noi sbattuti davanti agli altri in modo vivido. E se un ricordo scompare, un’esperienza si dimentica, il corpo si muove, viaggia nel mondo portando a spasso la vita e la morte.

“Il ricordo di un dolore passato. Il cesareo che ho fatto venti anni fa […] e che un giorno qualsiasi, senza un motivo, comincia a bruciare per qualche minuto. La memoria della carne che ha sofferto”.

La lingua e lo stile di Cristò

Questo libro è da intendersi un esperimento audace nel mondo letterario non solo per la trama e la struttura narrativa, ma anche per la lingua e lo stile utilizzati. Cristò si avvale di brevi intermezzi che fanno saltare il lettore da una realtà umana all’altra, dall’esistenza del medico a quella del protagonista, al suo ricordo da bambino. È la tecnica più congeniale a un testo denso di contenuti e storie che fornisce l’impressione di rimanere sullo stesso filo conduttore, ma con stacchi brevi, che non fanno perdere le fila del discorso.

Le frasi secche scandiscono il ritmo di una narrazione avvincente: “Ha ancora il cappotto addosso. Esiste solo la fame. Esiste solo la carne. Il piccione l’ha mangiato tutto. Non esiste il piccione. Ha ingurgitato anche le piume. Non esistono le piume. Ha masticato le ossa. Non esistono le ossa”.

E il “tormentone”: “nel mondo come era quando avevo otto anni” ci riporta a un’espressione non del tutto sconosciuta, a quel “preferirei di no” che Herman Melville fa pronunciare al personaggio di Bartleby lo scrivano. La reiterazione di una frase concettuale porta il lettore in una dimensione familiare tenendolo aggrappato fino alle ultime pagine.

a cura di Antonella Dilorenzo

Antonella Dilorenzo

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