La bambina che mangiava i comunisti: storia di un’illusione politica raccontata con gli occhi dell’infanzia. Recensione

 La bambina che mangiava i comunisti: storia di un’illusione politica raccontata con gli occhi dell’infanzia. Recensione

La parabola del comunismo, con le sue utopie, visse così come era nata: una grande speranza disattesa pronta ad accendersi come una torcia sulla quale d’improvviso nevicò. La bambina che mangiava i comunisti (Vallecchi, 2022) di Patrizia Carrano è una favola sulle stagioni culminanti del sentimento comunista alla fine degli anni Cinquanta e si concentra su un singolo anno: il 1956, crocevia fondamentale dell’ideologia comunista nazionale e internazionale. L’autrice ripercorre, in quell’arco di tempo, la sua infanzia come se fosse una favola di Andersen o di Afanasjev, i libri prediletti della piccola protagonista, abitati da principesse dei ghiacci e Baba Jaga, da orchi rossi e neri e da mostri che prendono il sopravvento, proprio come la nevicata di Roma del 1956, culmine metaforico di una stagione sia politica, sia temporale.

 

La bambina che mangiava i comunisti di Patrizia Carrano: la trama del libro

Il romanzo di Patrizia Carrano racconta, in quattro stagioni, le fasi più vivide del comunismo e di come fu vissuto in Italia e a Roma attraverso gli occhi della piccola Elisabetta. Tra la ricostruzione post conflitto e le illusioni del boom economico emergono tutti i pregi e i difetti di un movimento politico che aveva affascinato e rivoluzionato tante generazioni.

Elisabetta ha appena nove anni ed è alle prese con una famiglia che si è dissolta come l’alleanza tra Unione Sovietica e Usa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Attraverso la madre e le sue peripezie tra comitati di quartiere e cene di partito, anche lei vive le avventure politiche di una Roma e di un’Italia ancora affascinate dall’avanzata liberatrice dell’Armata Rossa in Europa ma con una percezione grigia e malinconica di un futuro sfocato.

Figlia di una militante atipica del Pci, segue le vicende della mamma, un’eroica pre-femminista che cerca nelle pieghe di «Botteghe Oscure» un’identificazione e un posto che neanche il partito stesso riesce a definire.

Così, tra una riunione e un incontro nella storica osteria dei fratelli Menghi, viatico di artisti, poeti e pensatori, Elisabetta affronta le stagioni non solo della sua vita ma anche del movimento culturale rosso di quel fatidico anno che fu il 1956. Attraverso i pensieri semplici di Elisabetta – talvolta, per questo diretti – e perciò privi della patina politica, il lettore ha un confronto diretto con la Storia, con i personaggi enormi che, come dei di un Cremlino lontano, lasciano il segno solo con uno sguardo: da Togliatti alla Iotti, da Negarville a un giovane Berlinguer. In quel viavai politico, tutta la sacralità si scioglie in un piatto di lasagne rosse che sventolano come una bandiera nella mensa della Cgil. Dal partito all’osteria, dove l’incontro con artisti come Mafai e la sua compagna Antonietta Raphael, Leoncillo, Maccari, Trombadori e Cardarelli è raccontato con la semplicità di uno schizzo d’artista regalato alla mamma.

Ma nel cuore della piccola Elisabetta rimane un luogo che è l’emblema dell’infanzia felice ma veloce, incosciente ma segnante, proprio come la Storia del primo Pci: Campo Parioli, l’enorme piana alluvionale, tra via Flaminia e Villa Glori, che ospitava centinaia di famiglie di sfollati e di emigrati dal Sud e dal Centro Italia. In quel posto colorato solo dai ragazzi di vita di pasoliniana memoria, Elisabetta incontra gli amici ai quali è più legata: l’esile Cesira e suo fratello Straccio, lo stereotipo del ragazzo dalla vita violenta che «i comunisti se li pappa in un sol boccone».

1956: l’anno breve e la fine di un’illusione

In questo libro Patrizia Carrano è abile a mescolare il suo passato con momenti romanzati. Lo spunto arriva sia dall’esperienza personale sia da testi, documenti e chiacchierate avute con i personaggi politici del Pci dell’epoca. L’infanzia di Elisabetta, e della Carrano stessa, diventa così una sorta di metafora: il 1956 assume i connotati dell’anno fondamentale per la crescita della giovane protagonista ma anche per una presa di coscienza di tutto un movimento politico, quello del Pci. All’interno di un solo anno, infatti, si pongono le basi per quello che sarà considerato il momento di svolta per un’intera classe politica che, come riprendendosi da un sogno, si scopre fragile davanti ai colpi che puntualmente la realtà gli sferza.

«Poesia» è, insieme a «favola», il termine più adatto a identificare il testo: la poesia dell’illusione comunista che sopravvive almeno fino al 1956, quel traumatico «anno breve»; anno che travolge i sogni di rivoluzione e l’utopia di un Urss ideale. Il 1956 è l’anno in cui, durante il XX Congresso del Pcus, Chruščëv denunciò il «culto della personalità» di Stalin con le relative dannose conseguenze, oltre alle violazioni della legalità rivoluzionaria degli ultimi vent’anni in Unione Sovietica. Tutto ciò causò una sorta di trauma e di catarsi che sfociò in un simbolico parricidio: liberatorio ma al tempo stesso sconcertante e disorientante. E se dovessimo riportare l’anno breve alla storia di Roma, ricorderemo che la nevicata del ’56 ebbe una valenza anch’essa simbolica: fu l’istante catartico di una slavina che travolse tutto e tutti con il candore che copre ma lascia uscire, pian piano, il grigio dell’asfalto, la materia di cui è fatta la verità.

La scrittura di Patrizia Carrano in La bambina che mangiava i comunisti

Patrizia Carrano riesce, con spirito leggero e tratto morbido, a non far pesare i discorsi da adulti fatti a Elisabetta, messa sempre al corrente di tutto, spesso di troppo. Qua e là, qualche domanda in più potrebbe portarla pericolosamente vicina a una realtà che invade gli spazi favolistici e onirici della fiaba, dimensione in cui si rifugia quando intorno a lei il caos politico, familiare e quotidiano diventa insostenibile. L’incontro-scontro con la Storia è poi sempre presente, e non è mai ingombrante, ma è a misura di bambina: è la Storia, infatti, che, accortasi della piccola Elisabetta, abbassa lo sguardo e si china, per avvicinare la bocca al suo orecchio e per tornare bambina, come lei.

A cura di Federico Cirillo

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