Il figlio delle sorelle di Leonardo G. Luccone: voci e ricordi senza nome. Recensione

 Il figlio delle sorelle di Leonardo G. Luccone: voci e ricordi senza nome. Recensione

Il figlio delle sorelle (Ponte alle Grazie, 2022) è il secondo romanzo di Leonardo G. Luccone, fondatore dello studio editoriale e agenzia letteraria Oblique. In questo romanzo, sorretto da una voce ossessiva e inaffidabile, il protagonista non si confronta semplicemente con la difficoltà di essere padre; il suo è il continuo tentativo di dare un ordine al tempo ingarbugliato dalla memoria e dai pensieri, di affrontare le conseguenze che provoca non dare un nome alle cose: «Non chiamare le cose per nome ci ha divaricato». Da qui anche la scelta di un protagonista senza nome ma con molti ruoli, tutti sfilacciati da una voce narrante che mette insieme passato e presente, vero e falso seguendo il filo di una psiche arroncigliata.

Il figlio delle sorelle di Leonardo G. Luccone: la trama del libro

Negli anni Novanta, in una Roma appena accennata, il protagonista e sua moglie Rachele stanno tentando di avere un figlio, o meglio Rachele vuole essere madre e il protagonista, per l’amore che lo lega a lei, la asseconda. Tuttavia, il figlio non arriva. Solo dopo molte difficoltà e tanta attesa nasce Sabrina e allo stesso tempo però la psiche del protagonista comincia a sfaldarsi fino a scivolare in una crisi psicotica. Lo ritroviamo quindici anni più tardi quando Sabrina, ormai adolescente, si avvicina a suo padre grazie a Carlotta, la figlia dell’attuale compagna del protagonista. Una conoscenza, quella tra padre e figlia, difficile, ostacolata da troppe domande sul passato rimaste in sospeso.

 

Un brulichio di voci

Il protagonista senza nome di Il figlio delle sorelle è anche la voce narrante del romanzo. Una voce che dialoga continuamente con sé stesso in un rimpallo frenetico tra passato e presente alla ricerca delle ragioni per le quali ha rifiutato quindici anni prima di essere padre. Un ruolo per cui non si è mai davvero pronti, ma che nel caso del protagonista è ancora più difficile per via della malattia mentale e le paure a essa legate. Nel presente del protagonista c’è Sabrina, la figlia ritrovata; c’è un rapporto che si forma passo dopo passo in quella che entrambi chiamano la «stanza delle parole», lì dov’è possibile indagare il passato, conoscere un padre e una figlia. Le risposte alle domande che si avvicendano nei colloqui che riguardano padre e figlia sono l’orizzonte come lo intende Galeano: servono per continuare a camminare. E il cammino assume connotazioni psicologiche, ma anche fisiche, quando il padre porta la figlia in Sicilia, lì dove sono le radici di una famiglia mozzata: «Dove si torna quando non c’è più né infanzia né casa, quando non ci sono più le persone? Abbiamo bisogno di un posto dove concentrare qualcosa. Per me il presente è solo il passato in prima approssimazione».

In questo brulichìo di voci, pensieri e visioni ossessivi, molteplici sono le figure femminili che gravitano attorno al protagonista: l’ex moglie Rachele, delusa e arrabbiata per essere stata costretta a crescere la figlia da sola; la nuova compagna del protagonista Gilda e sua figlia Carlotta che ha con Sabrina un rapporto che va oltre la sorellanza; e poi ci sono Silvia, Corinna e Rebecca: una moltitudine di voci femminili che nel corso del romanzo si mescolano, si sovrappongono, diventano una voce sola, la voce per esprimere una sola domanda: perché?

 

Lo stile di scrittura di Leonardo G. Luccone

Quello di Luccone è uno stile sinuoso in cui singoli sintagmi si caricano di energia metaforica senza mai esagerare, al contrario diventano punti luce all’interno della narrazione, come qui: «“Lascialo piangere” aveva detto Michela, e la frase si era sovrapposta alle altre e quella ramaglia di parole sovrastava il pianto del bambino, sempre meno convinto e sempre più lancinante». Oppure come in questo passo: «I panni sventolavano sul filo del bucato – le lenzuola avorio del residence e una camicia da notte rosa che non se n’è più andata dalla mia testa. […] Scendo dentro di me e mi impiglio. Sono una cellula sbrecciata. È scomparsa l’incredulità, è sfocata la vergogna, ho disimparato la paura perché pure la morte va a teatro, in carrozza, con l’armamentario scarcassato. Le voci si erano attenuate, gorgheggiavano lontane e io mi aspettavo che arrivasse qualcuno a prendermi, che arrivasse Sabrina con la faccia cresciuta che non riuscivo a immaginare perché ero fermo. Sarebbe andato bene pure un boia con le mani sudate».

La tenerezza riservata al ricordo lascia poi spazio a capitoli in cui la scrittura si fa più dura, secca; in queste parti il dialogato occupa la scena, mentre per i silenzi ci pensa una voce narrante asettica a registrare in presa diretta ogni dettaglio, ogni gesto – un seno lisciato, l’elastico delle mutande sistemato –; la voce è qui un’inquadratura. In altre parti invece la narrazione è perturbante, la voce diventa ossessiva, segue il flusso dei pensieri maniacali e psicotici del protagonista, si assiste a un sofisticato turbinìo sintattico, a ripetizioni e assonanze, a un’aggettivazione che procede per accumulo: «Le luci azzurrate della sorella mimetizzata con lo smalto caramellato il rossetto caramellato lo sguardo caramellato e il corpo ambrato mineralizzato».

a cura di Valeria Zangaro

Valeria Zangaro

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