Black Tulips di Vitaliano Trevisan: un’autobiografia frammentata e bicromatica sulla diversità. Recensione

 Black Tulips di Vitaliano Trevisan: un’autobiografia frammentata e bicromatica sulla diversità. Recensione

Black Tulips (Einaudi Stile Libero, 2022) è il romanzo postumo del vicentino Vitaliano Trevisan, scrittore, regista, drammaturgo e attore. Fra le sue opere letterarie più note, I quindicimila passi (Einaudi, 2002), con il quale si è aggiudicato il premio Lo Straniero e il Campiello Europa; la raccolta di racconti Un mondo meraviglioso (Theoria, 1997), con cui ha esordito come scrittore negli anni Novanta; e Shorts (Einaudi, 2004), vincitore del premio Chiara. Di natura eclettica e controcorrente, Trevisan si è distinto fra gli autori della letteratura contemporanea italiana per lo sguardo critico e per la capacità di sondare la realtà attraverso le sue stratificazioni, denudata di ogni suo velo e riportata nelle sue opere senza mezzi termini, con ghignante ironia, rigore del vero e, a volte, nel suo più sconcertante e brutale realismo. Black Tulips è un’opera interrotta a causa della prematura morte dell’autore.

Black tulips di Vitalian Trevisan: la trama del libro

Black Tulips è un’opera che si presenta, per il suo percorso di stesura e pubblicazione, come un montaggio di pezzi. Pezzi di storie drammatiche, che riflettono dolorosi spaccati di esistenze comuni; frantumi di vite accomunate ognuna dallo stesso stato di precarietà e di ricerca perpetua. I fatti non sono registrati contemporaneamente al periodo in cui l’autore li vive, ma molti anni dopo, quando Trevisan sessantenne lavora come portiere notturno in un hotel vicentino, e vengono da lui ricostruiti attingendo tanto alla memoria tanto all’immaginazione, dal momento che, come dichiarato dallo stesso autore, «la memoria è fantasia».

Gli eventi narrano l’«epoca africana», ovvero il viaggio che Trevisan compie in Nigeria, in compagnia di Ade (diminutivo di Adesuwa), una prostituta di Benin City conosciuta dall’autore anni prima in Italia e con la quale aveva intrattenuto una frequentazione più o meno duratura; Amen, cugino di Ade; e Mudia, amico meccanico con cui avrebbe dovuto intraprendere un traffico di parti di ricambio usate per auto. Trevisan confessa di aver da sempre nutrito un profondo interesse per l’Africa, la cui origine è da lui rintracciata in un episodio dell’infanzia: quando ancora bambino, riceve in regalo da suo zio Lorenzo, da poco rientrato dall’Africa, una statuetta in legno dall’aspetto tribale, e dalla quale crescendo non si è mai separato. Il desiderio di partire alla volta dell’Africa nascerà poi, in età adulta, dall’urgenza di scoprirla, una volta per tutte, con i propri occhi. Specialmente da quando aveva iniziato a vederla «incarnata» nelle donne nigeriane che aveva cominciato a frequentare. «You must c with your own eyes» gli rispondeva sempre Ade, quando lui le chiedeva di descrivergli il suo Paese.

Sin dall’inizio, la narrazione del viaggio, dalla gigantesca megalopoli di Lagos fino all’«inferno» di Benin City, procede come una linea tratteggiata, punteggiata da flashback e digressioni, e dalle storie di Hellen, Isegwe, Chika, altre prostitute nigeriane. Alcuni intermezzi, che si inseriscono nella vicenda principale e che riportano l’Italia settentrionale sullo sfondo narrativo, rievocano invece le interminabili crociere notturne dell’autore in macchina – nel cosiddetto «quadrilatero del degrado», per le stazioni o lungo la strada statale per Verona – alla ricerca di compagnia per aggirare la sua costante angoscia e senso di solitudine.

La prostituzione, l’immigrazione clandestina e il colonialismo occidentale

La prostituzione nigeriana in Italia, l’immigrazione clandestina e la natura parassitaria del colonialismo occidentale sono temi intrinseci al racconto e vengono tutti capillarmente analizzati da un punto di vista storico, sociale e culturale (spesso come note al testo), cercando di risalire alle sue origini e alle cause,  sfrondati, con spirito cinico e dissacrante, da qualsivoglia ipocrisia. L’argomento del mercato clandestino della prostituzione, considerato scabroso per la sensibilità borghese occidentale che Trevisan giudica di «matrice americana», viene integrato alla riflessione che l’autore fa in merito alla propria esperienza personale, denunciando lo stigma che la morale pubblica gli attribuirebbe, annoverandolo nella categoria dei reprobi, criminali, papponi, e magnacci in quanto «cliente» lui stesso della prostituzione.

L’atteggiamento di trasparenza e disincanto che Trevisan assume in queste pagine comunica il sotterraneo intento di riscattare e assolvere al tribunale dei giudicanti tanto sé stesso, tanto quelle ragazze che, lavorando come sex workers nel nostro Paese, sono vittime dell’accanimento di una società ipocrita, cieca e perbenista.

«La figura della puttana è stato sempre un problema per chiunque, nel corso dei secoli, abbia cercato di definirne i contorni cercando inutilmente nei corpi e/o nella psiche delle prostitute i segni tangibili di uno stigma che le differenziasse dalle donne normali».

Benin City e l’ambiente urbano nel romanzo di Trevisan

Benin City, l’hub della prostituzione nigeriana, è l’ultima tappa dell’itinerario africano, dove la strada e l’ambiente urbano più in generale dominano la scena in un racconto on the road: strade bianche polverose, di rado asfaltate e prive di segnaletica; strade seminate di fossati a cielo aperto, impestate di rifiuti sui marciapiedi che puzzano di cibo andato a male; strade avvolte dai fumi di scarico e da quelli degli immancabili suya boys (ragazzi che grigliano bistecche all’aperto); strade deliranti, congestionate dal caos di macchine, motorini, carretti trainati da buoi, schierati gli uni dietro gli altri.Strade buie, notturne. Strade abbacinate, bruciate dal caldo sole africano.

La scrittura di Vitaliano Trevisan in Black Tulips

Il romanzo di Trevisan si presenta come un’autobiografia poetica, convulsa e fluida, come lo sviluppo dei suoi pensieri, a tratti disordinati, qua e là deliranti, ma sempre liberi di manifestarsi e di prendere forma nella parola, farsi inchiostro su carta, nero su bianco. Una bicromia che si ripete costantemente in queste pagine e che sbiadisce ogni altro colore, che vuole evidenziare una differenza palpabile, che emerge puramente come dato di fatto, un contrasto tanto cromatico quanto culturale, che non crea conflitto, ma denota semplicemente diversità. Una diversità che si vede e si vive in quanto tale.

La scrittura dell’autore in questo romanzo, alle volte frammentata, ma anche prorompente e straripante, riflette un temperamento che non vuole sottostare a nessuna norma o convenzione stilistica. Il lessico presenta spesso espressioni in lingua inglese e in pidgin-inglese, come la parola oyibo con la quale l’autore si rivolge spesso a sé stesso, e che significa «uomo bianco». Parola che lo seguirà come un’ombra sonora durante tutto il suo soggiorno in Africa, connotando il suo status di «diverso» in un Paese dove, stavolta, il colore predominante non è il bianco, ma il nero, e dove diviene impossibile essere e sentirsi trasparenti.

 

A cura di Clara Frasca

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